Ciao a tutti.
Come molti di voi sapranno, lo scorso 15 Dicembre a Milano ha avuto luogo un incontro nazionale con l’Azienda vertente su due temi: Premio di risultato e Strong autentication.
L’Azienda ha aperto il confronto sviluppando una panoramica su tutte le criticita` incontrate dal gruppo Comdata e, di conseguenza, da tutte quante le aziende controllate.
Riguardo al premio di risultato, l’Azienda ha sottolineato come per Comdata Care l’indice EBITDA sia passato da un valore negativo ad un positivo +1,2%, registrato alla chiusura del bilancio dello scorso Giugno.
Tale trend di ripresa sarebbe stato riconfermato dalla chiusura dell’indice al primo trimestre di quest’anno, attestatosi al +1%. Malgrado la sottolineatura positiva, l’Azienda ha comunque evidenziato il fatto che, allo stato attuale, il bilancio risulta in perdita di 2.000.000 di Euro.
Dopo aver comunicato la volontà di non procedere piu` per vie unilaterali con percorsi di elargizione di bonus, l'Azienda ha specificato l'intenzione di considerare, quale target per erogare il pdr, il raggiungimento del 6,5% dell’ EBITDA.
Preso atto delle valutazioni dell'Azienda secondo le quali alcuni dei parametri che venivano presi in considerazione in Vodafone per il premio quali, ad esempio, qualità e produttività, si svuotano di contenuto in una società di contact center, e considerata la grande distanza attualmente presente tra l’indice posto quale obiettivo e quello attualmente raggiunto, abbiamo proposto all'Azienda, attraverso la nostra RSU, un ragionamento di percentuali a scalare in merito al premio di risultato.
In pratica abbiamo ipotizzato un sistema per il quale, al raggiungimento dell’indice del 6,5% venga elargito il 100% del pdr, mentre all’assestamento su percentuali inferiori venga erogato un premio corrispondente alla quota prodotta.
Dopo una riflessione in merito, l’Azienda e` addivenuta alla plausibilità di tale discorso e, dicendosi disposta seguire tale ragionamento, ha ipotizzato una scala di valori con una prima percentuale di ingresso del 3,5% dell’ EBITDA, percentuale alla quale verrebbe erogato1/3 del premio (circa 1000 euro), e poi man mano a salire sino al 6,5%.
Accogliamo favorevolmente l’apertura dell’Azienda a ragionare secondo questi parametri, ma, come specificato al tavolo, riteniamo che la prima quota d’ingresso sia ancora troppo alta rispetto allo standard attuale e che sia pertanto necessario riuscire a costruire un sistema che preveda un premio effettivamente raggiungibile gia` dal primo anno di un eventuale accordo.
Dal momento che il 31 Dicembre si chiudera` il 2° trimestre e che solo a quel punto potranno essere fatte proiezioni piu` attendibili sugli indici aziendali, abbiamo suggerito quanto poi si e` inteso fare, ovvero aspettare
Gennaio, anche perche` prima non ci sarebbe stato modo di vederci, per provare a strutturare una scala finale con premi realmente ricevibili dai lavoratori.
Ipotizzavamo ad esempio che, fissata la percentuale al 6,5% di EBITDA per l'elargizione del 100% del pdr, si potrebbe considerare come prima soglia d'accesso all' 1/3 di detto premio, una percentuale che fosse
anch'essa 1/3 dell'obbiettivo finale, e quindi stabilire che raggiunta una soglia annua del 2,16% di edibta (e non come proposto dall'Azienda il 3.5%) si elargisca l'1/3 del premio totale, circa 1000 euro, e poi via via in
percentuale crescente sino al 100% del premio nel caso si raggiunga il 6,5%.
Riguardo la Strong autentication, abbiamo rimandato la discussione di questo punto, di particolare rilevanza per gli interessi aziendali, ad una fase in cui si discuta dati alla mano ed in maniera approfondita del pdr.
Coordinamento Cobas Comdata Care
domenica 20 dicembre 2009
giovedì 17 dicembre 2009
Renault condannata per suicidio dipendente
PARIGI - La Renault è stata condannata per il suicidio di un suo ingegnere. Antonio B. è stato ucciso dall'eccessivo stress lavorativo. Tre suoi colleghi del centro progettazione della casa automobilistica si sono tolti la vita. Dopo i recenti suicidi per i tagli al personale della France Telecom, la sentenza sulla causa intentata dalla vedova dell'ingegnere della Renault potrebbe aprire la strada a una serie di procedimenti contro le aziende che impongono ritmi di lavoro troppo duri. "Spero che sia un segnale forte per tutte quelle imprese che sacrificano ogni cosa sull'altare del profitto", ha commentata la moglie di Antonio B.
Da Citroen a France Telecom, sono numerose le grandi imprese francesi che negli ultimi mesi sono state accusate dai sindacati di aver indirettamente spinto al suicidio alcuni dei propri dipendenti, con sistemi manageriali aggressivi o trattamenti degradanti. E ora potrebbero essere trascinati in tribunale dalle famiglie.
Antonio B. aveva 39 anni, una moglie e un figlio. Il 20 ottobre 2006 si gettò dal quinto piano del Centro tecnologico della Reanult di Guyancourt, alle porte di Parigi. "Per raggiungere gli obiettivi che gli avevano fissato - ricorda la vedova, Sylvie - mio marito lavorava tutte le sere, tutte le notti, tutti i weekend. Negli ultimi mesi dormiva solo due ore per notte e mi diceva continuamente che comunque non sarebbe mai riuscito a raggiungere gli obiettivi dell'azienda". Anche i colleghi della vittima erano preoccupati. Ricordano che Antonio era "inquieto e ansioso, ed era anche dimagrito", come è scritto nella sentenza, ma i superiori "non avvertirono il medico del lavoro".
Nel 2007 già la Cassa primaria di assistenza sanitaria dell'Hauts-de-Seine aveva riconosciuto il suicidio di Antonio B. come "incidente sul lavoro". Ora la sentenza del tribunale di sicurezza sociale (Tass) di Nanterre, secondo cui "la Renault avrebbe dovuto essere consapevole del pericolo al quale il dipendente era esposto". "Una negligenza ingiustificabile", scrivono i giudici che hanno fissato la massima indennità per la vedova e il figlio, ancora minorenne.
Renault ha un mese di tempo per presentare ricorso: "Esamineremo in dettaglio il dossier", dicono i legali della casa automobilistica. Ma la serie preoccupante di suicidi ha già spinto l'azienda a riorganizzare radicalmente i propri centri ingegneristici, riducendo l'orario di lavoro e istruendo il personale su come individuare i colleghi in difficoltà. Lo stesso amministratore delegato Carlos Ghosn, durante un'assemblea generale, ha ammesso che tra i dipendenti di Guyancourt si registravano "tensioni oggettivamente molto forti" e che sarebbe necessario "identificare le situazioni nelle quali i collaboratori sono lasciati soli di fronte ai problemi".
Da Citroen a France Telecom, sono numerose le grandi imprese francesi che negli ultimi mesi sono state accusate dai sindacati di aver indirettamente spinto al suicidio alcuni dei propri dipendenti, con sistemi manageriali aggressivi o trattamenti degradanti. E ora potrebbero essere trascinati in tribunale dalle famiglie.
Antonio B. aveva 39 anni, una moglie e un figlio. Il 20 ottobre 2006 si gettò dal quinto piano del Centro tecnologico della Reanult di Guyancourt, alle porte di Parigi. "Per raggiungere gli obiettivi che gli avevano fissato - ricorda la vedova, Sylvie - mio marito lavorava tutte le sere, tutte le notti, tutti i weekend. Negli ultimi mesi dormiva solo due ore per notte e mi diceva continuamente che comunque non sarebbe mai riuscito a raggiungere gli obiettivi dell'azienda". Anche i colleghi della vittima erano preoccupati. Ricordano che Antonio era "inquieto e ansioso, ed era anche dimagrito", come è scritto nella sentenza, ma i superiori "non avvertirono il medico del lavoro".
Nel 2007 già la Cassa primaria di assistenza sanitaria dell'Hauts-de-Seine aveva riconosciuto il suicidio di Antonio B. come "incidente sul lavoro". Ora la sentenza del tribunale di sicurezza sociale (Tass) di Nanterre, secondo cui "la Renault avrebbe dovuto essere consapevole del pericolo al quale il dipendente era esposto". "Una negligenza ingiustificabile", scrivono i giudici che hanno fissato la massima indennità per la vedova e il figlio, ancora minorenne.
Renault ha un mese di tempo per presentare ricorso: "Esamineremo in dettaglio il dossier", dicono i legali della casa automobilistica. Ma la serie preoccupante di suicidi ha già spinto l'azienda a riorganizzare radicalmente i propri centri ingegneristici, riducendo l'orario di lavoro e istruendo il personale su come individuare i colleghi in difficoltà. Lo stesso amministratore delegato Carlos Ghosn, durante un'assemblea generale, ha ammesso che tra i dipendenti di Guyancourt si registravano "tensioni oggettivamente molto forti" e che sarebbe necessario "identificare le situazioni nelle quali i collaboratori sono lasciati soli di fronte ai problemi".
lunedì 14 dicembre 2009
COMUNICATO SINDACALE: Risultati votazione ipotesi di accordo per rinnovo CCNL
Roma, 11 Dicembre 2009
Al termine delle assemblee sui luoghi di lavoro e relative votazioni, i risultati a livello nazionale sono i seguenti:
Votanti: 23.897
Favorevoli: 20766 (86,9%)
Contrari: 2748 (11,5%)
Astenuti/Nulle: 383 (1,6%)
Pertanto l’ipotesi, come già preannunciato, si intende sciolta positivamente.
Ovviamente dovremmo lavorare per analizzare i diversi risultati e le legittime contrarietà di chi ha votato contro, così come dovremmo continuare a portare avanti le nostre battaglie su appalti, clausole sociali, ecc.
Infine una semplice constatazione rispetto a chi (UGL) – non avendo fatto neanche un’assemblea e avendo come al solito firmato un testo di accordo “fotocopia” di quello sudato e contrattato da CGIL CISL e UIL – si vanta di aver sciolto positivamente la riserva in contemporanea a noi.
Prendersi i meriti di un lavoro non fatto, sciogliere un’ipotesi senza aver fatto neanche un’assemblea, è un atteggiamento che squalifica chi lo porta avanti ed è una beffa per le tante lavoratrici e lavoratori del settore.
Le Segreterie Nazionali di SLC-CGIL, FISTEL-CISL, UILCOM-UIL
Al termine delle assemblee sui luoghi di lavoro e relative votazioni, i risultati a livello nazionale sono i seguenti:
Votanti: 23.897
Favorevoli: 20766 (86,9%)
Contrari: 2748 (11,5%)
Astenuti/Nulle: 383 (1,6%)
Pertanto l’ipotesi, come già preannunciato, si intende sciolta positivamente.
Ovviamente dovremmo lavorare per analizzare i diversi risultati e le legittime contrarietà di chi ha votato contro, così come dovremmo continuare a portare avanti le nostre battaglie su appalti, clausole sociali, ecc.
Infine una semplice constatazione rispetto a chi (UGL) – non avendo fatto neanche un’assemblea e avendo come al solito firmato un testo di accordo “fotocopia” di quello sudato e contrattato da CGIL CISL e UIL – si vanta di aver sciolto positivamente la riserva in contemporanea a noi.
Prendersi i meriti di un lavoro non fatto, sciogliere un’ipotesi senza aver fatto neanche un’assemblea, è un atteggiamento che squalifica chi lo porta avanti ed è una beffa per le tante lavoratrici e lavoratori del settore.
Le Segreterie Nazionali di SLC-CGIL, FISTEL-CISL, UILCOM-UIL
domenica 13 dicembre 2009
Campagna nazionale contro le delocalizzazioni
Premessa
Il settore delle TLC continua a rappresentare nel Paese un settore ricco e non in particolare difficoltà, con margini di fatturato ampi (il primo semestre 2009 si è chiuso con una crescita del + 1%; dati Confindustria) e con una liquidità mediamente alta. Eppure come SLC-CGIL denunciamo oggi pubblicamente il comportamento delle grandi aziende (Telecom, Vodafone, Wind, H3G, Fastweb, BT Italia, SKY) in materia di esternalizzazioni e delocalizzazioni. Un comportamento sbagliato ed ingiusto, che recherà danni all’occupazione e – più in generale – alla qualità del settore.
In particolare, dopo una sommaria indagine e uno studio sui principali contratti commerciali in essere e in via di definizione, è evidente la scelta dei principali operatori (scelta inedita per quantità e qualità), di avviare nei prossimi mesi un processo massiccio di delocalizzazione di attività oggi lavorate in Italia. Una delocalizzazione verso quei paesi (Tunisia, Albania, Romania in particolare) cui costo del lavoro è pari circa ad un quarto di quello italiano.
Inutile dire che tali lavoratori, in quei paesi, sono oggi privi di tutele collettive anche lontanamente paragonabili alle nostre, di un Contratto Collettivo Nazionale con minimi salariali dignitosi. E che in molti casi non vi sono quelle libertà sindacali minime come definite dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).
Nello specifico, solo analizzando le politiche di delocalizzazione avviate dalle sette aziende sovra
indicate, riteniamo siano a rischio nel breve periodo (anno 2010) circa tre/quattro mila posti di lavoro, con evidente sottrazione di volumi di attività all’intera filiera delle TLC.
Ed il tutto esclusivamente per aumentare gli attuali profitti a vantaggio degli azionisti, come risposta ad un calo dei guadagni, in un settore che genera comunque profitti e liquidità.
In particolare come SLC-CGIL denunciamo una politica non solo di esternalizzazioni di attività verso imprese di outsourcing italiane (Comdata, Almaviva, Teleperformance, E-Care, ecc.), ma - tramite subappalto delle stesse - verso aziende oggi operanti in Romania, Albania, Tunisia, Turchia, Sud America.
Una scelta questa sbagliata socialmente e industrialmente, in contraddizione con la produzione
normativa dell’Autorita Garante per la Comunicazione (AGCOM) che, anche ultimamente, ha sottolineato l’esigenza di una maggiore trasparenza, una maggiore responsabilità delle imprese titolari di licenza, una maggiore attenzione alla qualità verso i consumatori (si veda per tutte la delibera n. 79/09).
Una scelta sbagliata socialmente in sé ma che si colloca oggi in un momento di difficoltà dell’economia nazionale con una delle più gravi crisi occupazionali degli ultimi decenni: il sistema delle imprese (soprattutto quelle che si basano su servizi avanzati, sulla capacità commerciale di fornire soluzioni personalizzate, ecc.) dovrebbe salvaguardare i livelli occupazionali, eventualmente ripensando le politiche di esternalizzazione di volumi di attività, non certo incoraggiandole.
Una scelta sbagliata industrialmente, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni: le aziende oggi vanno delocalizzando la “gestione” dei clienti di fascia bassa e media, limitandosi alla gestione in house dei clienti top e a maggior capacità di spesa.
Poiché però il futuro del settore sarà sempre più dipendente dalla capacità di “alfabetizzare” all’uso delle tecnologie di comunicazione (sia fissa che mobile) fasce sempre più ampie della popolazione, con la trasformazione degli attuali terminali in veri e propri “portali” (per comunicare, fare impresa, qualificare il tempo libero), rinunciare all’evoluzione dei consumatori medi in possibili “fruitori alti” di nuovi servizi e applicazioni, significa rinunciare alla crescita di nuovi e più avanzati modelli di consumo.
In Italia infatti occorre accompagnare un mercato ancora oggi ancorato sulla fonia, verso una maggiore capacità di utilizzo convergente degli apparati (dalla banda larga in mobilità, alla “casa e all’impresa digitale”, ecc.). Mettere “fuori” i clienti di fascia media (chiamati nei modi più diversi: 4 stelle, Silver, ecc.) vuol dire ridursi i propri margini di crescita.
Soprattutto vuol dire una minore personalizzazione del servizio, una peggiore qualità nella gestione del contatto, una minore capacità di commercializzazione. Tutto questo con buona pace del cliente e delle sue prerogative.
Esternalizzazione di attività: una politica che è fallita.
Oggi la discussione nel settore dovrebbe essere indirizzata in senso contrario: la politica seguita in materia di esternalizzazioni è – piaccia o no – fallita.
E’ fallita la strategia di esternalizzare le attività in Telecom Italia (la madre di tutte le “esternalizzazioni”): non vi è stata alcuna specializzazione produttiva, alcuna valorizzazione dell’occupazione ceduta. Non solo la qualità del servizio non è migliorata; non solo il rapporto costi/benefici si è dimostrato incongruente; non solo centinaia di cause legali hanno dimostrato anche la mancanza, in diversi casi, delle condizioni organizzative minime, ma le centinaia di posti di lavoro persi e la fragilità delle nuove imprese sono lì a dimostrare che il settore non è cresciuto andando in quella direzione.
E questo non riguarda solo Telecom: le difficoltà di aziende come Omnia, Agile, Phonemedia, Comdata, Almaviva e la stessa politica portata avanti da Teleperformance, E-care e Transcom (per non considerare la situazione delle imprese che operano negli appalti della rete) sono a dimostrare che la cessione di lavoratori ed attività (anche quando contrattata con buone clausole sociali e con buoni accordi) non risolve il problema di un settore che non ha ancora sviluppato una responsabilità sociale diffusa, una cultura della qualità e degli investimenti omogenea, una pratica relazione e sindacale in grado di tutelare l’intera filiera con regole uguali per tutti.
Lo scandalo delle imprese che riducono la forza lavoro ed intanto esternalizzano e delocalizzano.
Vi è poi uno “scandalo nello scandalo”. Da un lato assistiamo da parte di queste aziende (Telecom, H3G, BT) ad una politica di riduzione dei livelli occupazionali interni (tramite contratti di solidarietà, cassa integrazione, mobilità incentivata, ecc.) con forti sacrifici da parte dei lavoratori più sindacalizzati; dall’altra vi è una politica di sistematica riduzione di attività fino ad oggi lavorate in casa (per esempio di Telecom) su cui potrebbero essere riconvertiti gli esuberi dichiarati.
Per di più secondo un modello che “stressa” le imprese di outsourcing con politiche sugli appalti basati al massimo ribasso, tanto da rendere difficile anche la stessa tenuta occupazionale negli outsourcing che sono - quindi - “invitati” a sub appaltare all’estero.
Insomma, siamo alle prese con una vera e propria strategia che rischia di:
a- ridurre le attività lavorate internamente dalle grandi aziende, riducendo i livelli occupazionali
interni ed impedendo possibili riconversioni degli attuali occupati;
b- “stressare” con gare al massimo ribasso anche la parte finale della filiera, con outsourcing sempre più ridotti a divenire stazioni appaltanti di altre aziende (con fenomeni di sub appalto, che fanno perdere poi “le tracce” delle stesse attività di customer);
c- incentivare la delocalizzazione di attività a forte valore aggiunto, verso paesi dove le condizioni dei lavoratori sono drammatiche.
Il tutto per aumentare i margini di profitto, con grande danno verso tutti: i lavoratori dipendenti delle grandi aziende, i lavoratori degli outsourcing, i clienti finali (cui dati vengono lavorati presso aziende estere, con buona pace della qualità, della trasparenza, della tutela della privacy).
E questo in un momento di difficoltà del sistema paese, con centinaia di migliaia di disoccupati in più.
La nostre proposte
Per questo come SLC-CGIL ci mobiliteremo sia a livello di singola azienda (con comunicati e percorsi specifici) che di settore. In particolare per chiedere alle imprese, a ASSTEL, al Governo:
- una moratoria contro ogni delocalizzazione di attività di customer care e di lavorazioni di back
office;
- il rispetto delle Delibere Agcom per noi, nei fatti, svuotate di senso dall’attuale politica degli
appalti e dei sub appalti, a partire dalla delibera n. 79/09;
- un intervento di sostegno fiscale straordinario (soprattutto al Sud) mirato ai call center e più in
generale alle aziende labour intensive;
- la definizione di un Avviso Comune che riconosca il valore della riconversione professionale
dei lavoratori come prima vera tutela occupazionale, che recepisca clausole sociali chiare
per l’assegnazione/cambio di appalti salvaguardando i livelli salariali, che sancisca tutele
occupazionali minime in caso di cessione, che preveda la costituzione di un Osservatorio
nazionale sulle attività in appalto, al fine di seguire le catene produttive in tutte le diverse aziende.
Osservatorio che potrebbe predisporre un Capitolato generale di appalto ”tipo” che si basi su
responsabilità in solido delle imprese e parità di trattamenti economici e normativi tra lavoratori in house e lavoratori in appalto. Questo per distinguere tra vere operazioni di “specializzazione
produttiva” e mere operazioni di contenimento di costi/licenziamenti.
Documento a cura di Alessandro Genovesi, Segretario Nazionale SLC-CGIL
Il quadro ad oggi, le stime per il 2010
Premessa
Il presente rapporto è frutto di un vero e proprio lavoro “investigativo” operato da diversi delegati sindacali che operano nelle varie aziende di TLC. Un ringraziamento va inoltre alle compagne e compagni coordinatori regionali di SLC-CGIL responsabili delle tlc per il loro contributo.
Diversi operatori sono stati inoltre contattati informalmente, anche tramite l’assistenza dei sindacati locali operanti nei diversi paesi. Purtroppo non è possibile dire con precisione quanti siano oggi i lavoratori che operano per aziende italiane e già questo testimonia della mancanza di trasparenza e delle difficoltà di una azione a livello di settore.
Ovviamente quanto le aziende stanno facendo - per quanto ci risulta - non è illegale e per tanto il loro comportamento, anche se venisse provato per quantità e qualità quanto denunciato, è pienamente legittimo (per di più la maggior parte delle attività non sono date in appalto direttamente dalle grandi aziende -con l’eccezione di H3G- ma risultano sub appalti dei fornitori italiani).
Un comportamento legittimo da un punto di vista legale quindi, meno – per noi – da un punto di vista sindacale, politico ed etico.
Chiariamo ciò in quanto riteniamo che sul tema tutti devono essere chiamati a fare la propria parte: le aziende in primo luogo (ovviamente), il Governo (soprattutto in un momento di così evidente difficoltà occupazionale per il Paese), la stessa Confindustria.
Situazione a fine ottobre 2009
Wind: l’azienda di proprietà dell’egiziano Sawiris ha annunciato l’avvio in Romania e in Albania (tramite specifiche aziende) di alcune centinaia di postazioni (per un equivalente di almeno 300-400 lavoratori).
Al riguardo dirigenti di imprese rumene sono già in Italia per lo studio degli applicativi e dei sistemi informatici (in particolare nel centro di Pozzuoli).
H3G: l’azienda guidata dal dott. Novari già oggi lavora in outsourcing circa la metà delle chiamate e delle pratiche amministrative (in particolare nel Sud Italia e all’estero) con contratti commerciali in essere con aziende operanti a Tirana, Bucarest, Tunisi per un totale di 400 operatori. L’azienda ha comunicato nel corso di un recente incontro con i sindacati che intende lavorare in house esclusivamente i clienti a “5 stelle”, implementando le attività da dare in appalto, estero compreso. Al momento sono in corso trattative per portare ad almeno 600 la forza lavoro estera (sviluppo in Argentina).
BT: la catena del sub appalto è quanto mai complessa da ricostruire. Attualmente servizi di assistenza per BT sono svolti in Romania e in Albania (per una stima prudenziale di 100 operatori circa).
VODAFONE/TELE 2: tramite i suoi principali fornitori (Comdata, Comdata Care, E-Care,
Transcom, ecc.) sono già operanti sub appalti in Romania per circa 300 lavoratori. In corso di definizione sono inoltre operazioni di sub appalto in Albania.
TELECOM: una stima di massima identifica in almeno 500-600 i lavoratori che opereranno per
l’azienda in Tunisia (dove sono già iniziate le selezioni del personale), Albania, Romania, Turchia,
Argentina.
FASTWEB: diverse attività in sub appalto sono attualmente lavorate in Albania e Romania, anche se per soli picchi produttivi da parte di fornitori.
Il settore delle TLC continua a rappresentare nel Paese un settore ricco e non in particolare difficoltà, con margini di fatturato ampi (il primo semestre 2009 si è chiuso con una crescita del + 1%; dati Confindustria) e con una liquidità mediamente alta. Eppure come SLC-CGIL denunciamo oggi pubblicamente il comportamento delle grandi aziende (Telecom, Vodafone, Wind, H3G, Fastweb, BT Italia, SKY) in materia di esternalizzazioni e delocalizzazioni. Un comportamento sbagliato ed ingiusto, che recherà danni all’occupazione e – più in generale – alla qualità del settore.
In particolare, dopo una sommaria indagine e uno studio sui principali contratti commerciali in essere e in via di definizione, è evidente la scelta dei principali operatori (scelta inedita per quantità e qualità), di avviare nei prossimi mesi un processo massiccio di delocalizzazione di attività oggi lavorate in Italia. Una delocalizzazione verso quei paesi (Tunisia, Albania, Romania in particolare) cui costo del lavoro è pari circa ad un quarto di quello italiano.
Inutile dire che tali lavoratori, in quei paesi, sono oggi privi di tutele collettive anche lontanamente paragonabili alle nostre, di un Contratto Collettivo Nazionale con minimi salariali dignitosi. E che in molti casi non vi sono quelle libertà sindacali minime come definite dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO).
Nello specifico, solo analizzando le politiche di delocalizzazione avviate dalle sette aziende sovra
indicate, riteniamo siano a rischio nel breve periodo (anno 2010) circa tre/quattro mila posti di lavoro, con evidente sottrazione di volumi di attività all’intera filiera delle TLC.
Ed il tutto esclusivamente per aumentare gli attuali profitti a vantaggio degli azionisti, come risposta ad un calo dei guadagni, in un settore che genera comunque profitti e liquidità.
In particolare come SLC-CGIL denunciamo una politica non solo di esternalizzazioni di attività verso imprese di outsourcing italiane (Comdata, Almaviva, Teleperformance, E-Care, ecc.), ma - tramite subappalto delle stesse - verso aziende oggi operanti in Romania, Albania, Tunisia, Turchia, Sud America.
Una scelta questa sbagliata socialmente e industrialmente, in contraddizione con la produzione
normativa dell’Autorita Garante per la Comunicazione (AGCOM) che, anche ultimamente, ha sottolineato l’esigenza di una maggiore trasparenza, una maggiore responsabilità delle imprese titolari di licenza, una maggiore attenzione alla qualità verso i consumatori (si veda per tutte la delibera n. 79/09).
Una scelta sbagliata socialmente in sé ma che si colloca oggi in un momento di difficoltà dell’economia nazionale con una delle più gravi crisi occupazionali degli ultimi decenni: il sistema delle imprese (soprattutto quelle che si basano su servizi avanzati, sulla capacità commerciale di fornire soluzioni personalizzate, ecc.) dovrebbe salvaguardare i livelli occupazionali, eventualmente ripensando le politiche di esternalizzazione di volumi di attività, non certo incoraggiandole.
Una scelta sbagliata industrialmente, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni: le aziende oggi vanno delocalizzando la “gestione” dei clienti di fascia bassa e media, limitandosi alla gestione in house dei clienti top e a maggior capacità di spesa.
Poiché però il futuro del settore sarà sempre più dipendente dalla capacità di “alfabetizzare” all’uso delle tecnologie di comunicazione (sia fissa che mobile) fasce sempre più ampie della popolazione, con la trasformazione degli attuali terminali in veri e propri “portali” (per comunicare, fare impresa, qualificare il tempo libero), rinunciare all’evoluzione dei consumatori medi in possibili “fruitori alti” di nuovi servizi e applicazioni, significa rinunciare alla crescita di nuovi e più avanzati modelli di consumo.
In Italia infatti occorre accompagnare un mercato ancora oggi ancorato sulla fonia, verso una maggiore capacità di utilizzo convergente degli apparati (dalla banda larga in mobilità, alla “casa e all’impresa digitale”, ecc.). Mettere “fuori” i clienti di fascia media (chiamati nei modi più diversi: 4 stelle, Silver, ecc.) vuol dire ridursi i propri margini di crescita.
Soprattutto vuol dire una minore personalizzazione del servizio, una peggiore qualità nella gestione del contatto, una minore capacità di commercializzazione. Tutto questo con buona pace del cliente e delle sue prerogative.
Esternalizzazione di attività: una politica che è fallita.
Oggi la discussione nel settore dovrebbe essere indirizzata in senso contrario: la politica seguita in materia di esternalizzazioni è – piaccia o no – fallita.
E’ fallita la strategia di esternalizzare le attività in Telecom Italia (la madre di tutte le “esternalizzazioni”): non vi è stata alcuna specializzazione produttiva, alcuna valorizzazione dell’occupazione ceduta. Non solo la qualità del servizio non è migliorata; non solo il rapporto costi/benefici si è dimostrato incongruente; non solo centinaia di cause legali hanno dimostrato anche la mancanza, in diversi casi, delle condizioni organizzative minime, ma le centinaia di posti di lavoro persi e la fragilità delle nuove imprese sono lì a dimostrare che il settore non è cresciuto andando in quella direzione.
E questo non riguarda solo Telecom: le difficoltà di aziende come Omnia, Agile, Phonemedia, Comdata, Almaviva e la stessa politica portata avanti da Teleperformance, E-care e Transcom (per non considerare la situazione delle imprese che operano negli appalti della rete) sono a dimostrare che la cessione di lavoratori ed attività (anche quando contrattata con buone clausole sociali e con buoni accordi) non risolve il problema di un settore che non ha ancora sviluppato una responsabilità sociale diffusa, una cultura della qualità e degli investimenti omogenea, una pratica relazione e sindacale in grado di tutelare l’intera filiera con regole uguali per tutti.
Lo scandalo delle imprese che riducono la forza lavoro ed intanto esternalizzano e delocalizzano.
Vi è poi uno “scandalo nello scandalo”. Da un lato assistiamo da parte di queste aziende (Telecom, H3G, BT) ad una politica di riduzione dei livelli occupazionali interni (tramite contratti di solidarietà, cassa integrazione, mobilità incentivata, ecc.) con forti sacrifici da parte dei lavoratori più sindacalizzati; dall’altra vi è una politica di sistematica riduzione di attività fino ad oggi lavorate in casa (per esempio di Telecom) su cui potrebbero essere riconvertiti gli esuberi dichiarati.
Per di più secondo un modello che “stressa” le imprese di outsourcing con politiche sugli appalti basati al massimo ribasso, tanto da rendere difficile anche la stessa tenuta occupazionale negli outsourcing che sono - quindi - “invitati” a sub appaltare all’estero.
Insomma, siamo alle prese con una vera e propria strategia che rischia di:
a- ridurre le attività lavorate internamente dalle grandi aziende, riducendo i livelli occupazionali
interni ed impedendo possibili riconversioni degli attuali occupati;
b- “stressare” con gare al massimo ribasso anche la parte finale della filiera, con outsourcing sempre più ridotti a divenire stazioni appaltanti di altre aziende (con fenomeni di sub appalto, che fanno perdere poi “le tracce” delle stesse attività di customer);
c- incentivare la delocalizzazione di attività a forte valore aggiunto, verso paesi dove le condizioni dei lavoratori sono drammatiche.
Il tutto per aumentare i margini di profitto, con grande danno verso tutti: i lavoratori dipendenti delle grandi aziende, i lavoratori degli outsourcing, i clienti finali (cui dati vengono lavorati presso aziende estere, con buona pace della qualità, della trasparenza, della tutela della privacy).
E questo in un momento di difficoltà del sistema paese, con centinaia di migliaia di disoccupati in più.
La nostre proposte
Per questo come SLC-CGIL ci mobiliteremo sia a livello di singola azienda (con comunicati e percorsi specifici) che di settore. In particolare per chiedere alle imprese, a ASSTEL, al Governo:
- una moratoria contro ogni delocalizzazione di attività di customer care e di lavorazioni di back
office;
- il rispetto delle Delibere Agcom per noi, nei fatti, svuotate di senso dall’attuale politica degli
appalti e dei sub appalti, a partire dalla delibera n. 79/09;
- un intervento di sostegno fiscale straordinario (soprattutto al Sud) mirato ai call center e più in
generale alle aziende labour intensive;
- la definizione di un Avviso Comune che riconosca il valore della riconversione professionale
dei lavoratori come prima vera tutela occupazionale, che recepisca clausole sociali chiare
per l’assegnazione/cambio di appalti salvaguardando i livelli salariali, che sancisca tutele
occupazionali minime in caso di cessione, che preveda la costituzione di un Osservatorio
nazionale sulle attività in appalto, al fine di seguire le catene produttive in tutte le diverse aziende.
Osservatorio che potrebbe predisporre un Capitolato generale di appalto ”tipo” che si basi su
responsabilità in solido delle imprese e parità di trattamenti economici e normativi tra lavoratori in house e lavoratori in appalto. Questo per distinguere tra vere operazioni di “specializzazione
produttiva” e mere operazioni di contenimento di costi/licenziamenti.
Documento a cura di Alessandro Genovesi, Segretario Nazionale SLC-CGIL
Il quadro ad oggi, le stime per il 2010
Premessa
Il presente rapporto è frutto di un vero e proprio lavoro “investigativo” operato da diversi delegati sindacali che operano nelle varie aziende di TLC. Un ringraziamento va inoltre alle compagne e compagni coordinatori regionali di SLC-CGIL responsabili delle tlc per il loro contributo.
Diversi operatori sono stati inoltre contattati informalmente, anche tramite l’assistenza dei sindacati locali operanti nei diversi paesi. Purtroppo non è possibile dire con precisione quanti siano oggi i lavoratori che operano per aziende italiane e già questo testimonia della mancanza di trasparenza e delle difficoltà di una azione a livello di settore.
Ovviamente quanto le aziende stanno facendo - per quanto ci risulta - non è illegale e per tanto il loro comportamento, anche se venisse provato per quantità e qualità quanto denunciato, è pienamente legittimo (per di più la maggior parte delle attività non sono date in appalto direttamente dalle grandi aziende -con l’eccezione di H3G- ma risultano sub appalti dei fornitori italiani).
Un comportamento legittimo da un punto di vista legale quindi, meno – per noi – da un punto di vista sindacale, politico ed etico.
Chiariamo ciò in quanto riteniamo che sul tema tutti devono essere chiamati a fare la propria parte: le aziende in primo luogo (ovviamente), il Governo (soprattutto in un momento di così evidente difficoltà occupazionale per il Paese), la stessa Confindustria.
Situazione a fine ottobre 2009
Wind: l’azienda di proprietà dell’egiziano Sawiris ha annunciato l’avvio in Romania e in Albania (tramite specifiche aziende) di alcune centinaia di postazioni (per un equivalente di almeno 300-400 lavoratori).
Al riguardo dirigenti di imprese rumene sono già in Italia per lo studio degli applicativi e dei sistemi informatici (in particolare nel centro di Pozzuoli).
H3G: l’azienda guidata dal dott. Novari già oggi lavora in outsourcing circa la metà delle chiamate e delle pratiche amministrative (in particolare nel Sud Italia e all’estero) con contratti commerciali in essere con aziende operanti a Tirana, Bucarest, Tunisi per un totale di 400 operatori. L’azienda ha comunicato nel corso di un recente incontro con i sindacati che intende lavorare in house esclusivamente i clienti a “5 stelle”, implementando le attività da dare in appalto, estero compreso. Al momento sono in corso trattative per portare ad almeno 600 la forza lavoro estera (sviluppo in Argentina).
BT: la catena del sub appalto è quanto mai complessa da ricostruire. Attualmente servizi di assistenza per BT sono svolti in Romania e in Albania (per una stima prudenziale di 100 operatori circa).
VODAFONE/TELE 2: tramite i suoi principali fornitori (Comdata, Comdata Care, E-Care,
Transcom, ecc.) sono già operanti sub appalti in Romania per circa 300 lavoratori. In corso di definizione sono inoltre operazioni di sub appalto in Albania.
TELECOM: una stima di massima identifica in almeno 500-600 i lavoratori che opereranno per
l’azienda in Tunisia (dove sono già iniziate le selezioni del personale), Albania, Romania, Turchia,
Argentina.
FASTWEB: diverse attività in sub appalto sono attualmente lavorate in Albania e Romania, anche se per soli picchi produttivi da parte di fornitori.
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